Il futuro é dei poliglotti. "Colui che non sa le lingue straniere non sa nulla della propria lingua", diceva Goethe, inventore del concetto di letteratura mondiale.
Scrittori e artisti, in patria, in esilio o in viaggio, non smettono mai di costruire ponti tra paesi e culture.
Per meglio "prestare l'orecchio alla voce del mondo"¹, come ha scritto l'intellettuale Alain Mabanckou, il suo ultimo libro è un meraviglioso periplo intorno al mondo. Tradotto in quindici lingue.
Per lui, il romanziere, "Il Congo è il luogo del cordone ombelicale, la Francia, la patria d'adozione dei miei sogni e l'America un angolo da cui guardo le impronte del mio vagabondare", lui è abitato da questo costante agitarsi, che contraddistingue i viaggiatori costanti.
Nel mondo professionale, saltare da un continente all'altro o da una lingua ad un'altra è un'abitudine, una necessità. Un passaporto che apre i confini senza, peraltro, standardizzare il mondo.
Una garanzia di chiarezza. Pensate per un momento alle discussioni tra i generali della NATO, tra gli astronauti dell'ESA e i diplomatici dell'ONU.
Tra imprenditori e sportivi di alto livello. Tra un subappaltatore messicano e il suo referente americano. Un banchiere cinese e le PMI in Mozambico. Una startup finlandese ed i suoi clienti di Abu Dhabi. Un campus a Singapore o una missione scientifica in Antartide. Si parla, si lavora insieme.
Si comprende l'altro, comprendiamo noi stessi. Ma né una traduzione simultanea, né le applicazioni di traduzione automatica multilingue cancellano completamente la stranezza del mondo.
L'ultima frontiera, è quella di "scendere nell'intraducibile", per dirla con Roland Barthes². In inglese, si dice "lost in translation".
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